Lo scontro dentro le civiltà. Democrazia, radicalismo religioso e futuro dell'India
Autore: Nussbaum Martha C.
Prezzo € 32,00
Editore Il Mulino (collana Saggi)
Il Manifesto 2 aprile 2009
Sandro Chignola
IL MALE OSCURO DELLA DEMOCRAZIA LIBERALE
MARTHA Nussbaum«Lo scontro dentro le civiltà» e «L'intelligenza delle emozioni», due importanti saggi per il Mulino della filosofa statunitense. L'analisi puntuale del volto totalitario se non fascista della politica dell'identità a partire dalla realtà indiana e dalla critica alle tesi di Samuel HuntingtonC'erano i cavalli nella valle dell'Indo? La questione, al centro di molti dibattiti sulla protostoria dell'India, può sembrare oziosa. E tuttavia, come sempre più spesso accade, l'ossessiva ricerca delle origini identitarie di una cultura finisce con l'attraversare anche questioni apparentemente oziose come queste. Rappresentazioni equestri ricorrono nei Veda e il cavallo ha una sua importanza nella cultura che in essi si rappresenta. Se però il cavallo non è originario del territorio indiano, e, come sembra, vi è stato introdotto durante migrazioni e conquiste che lo hanno attraversato, allora la cultura vedica, autentico feticcio della destra induista, perno sul quale ruota il dispositivo che politicizza l'identità religiosa e culturale indiana e che discrimina altre religioni ed altre culture (quella cristiana e quella musulmana pure in esso presenti), non può essere pensata come l'espressione originaria della purezza etnica della nazione e del suo, quasi naturalistico, insediarsi su di uno spazio. Mettersi sulle tracce dell'equus caballus, cercarne i resti e discettare sul fatto se i reperti di volta in volta rinvenuti appartengano ad esso o ad altri equini meno nobili o meno investiti di significati simbolici e culturali, significa lavorare sul mitologhema dell'origine. Un fantasma, quest'ultimo, che le destre fasciste sono in grado di trasformare in un ben più terribile e materialissimo spettro.Nel 1992 una folla di fanatici induisti distrugge la moschea di Babri, risalente al XVI secolo, perché ritiene che essa sorga sul sito di un più antico tempio induista. Nel marzo del 2002 un'ondata di violenze scuote lo stato del Gujarat, culminando nel massacro di migliaia di bambini, donne e uomini musulmani. Devastazioni, saccheggi e stupri, in un crescendo di efferatezze, attraversano la regione per vendicare la morte di una sessantina di kar sevak nell'incendio del treno di pellegrini di ritorno da Ayodhya, il presunto luogo di nascita del dio Rama; un incendio, che la propaganda induista imputa da subito ad un'azione dolosa dei musulmani.
In nome della purezza nazionale
Martha C. Nussbaum usa questi due eventi - non esplosioni irrazionali, ma effetto di una minuziosa costruzione dell'identità induista e del suo nemico interno da parte delle organizzazioni politiche della destra induista, il «Bharatiya Janata Party», direttamente al potere in coalizione con partiti minori dal 1998 al 2004, e il Rashtriya Swayamsevak Sangh, il «Corpo nazionale dei volontari» fondato nel 1925 come centro di intervento sociale e di disciplinamento della gioventù indiana per mezzo di iniziative culturali e sportive in facile competizione con la monotonia e la ripetitività dei modelli ufficiali di formazione scolastica - come il filo rosso attraverso il quale tessere la propria polemica con il canone dello scontro di civiltà diffusosi, dopo l'11 settembre 2001, a partire dalle posizioni di Samuel Huntington. Se uno scontro è in atto, questa la tesi di Nussbaum, questo scontro non oppone l'Occidente democratico ad un Islam aggressivo e fondamentalista, ma esso viene svolgendosi, in forme più sottili e maligne, e proprio per questo tanto più pericolose perché sottaciute o invisibili, all'interno delle stesse democrazie e delle forme costituzionali che le rivestono tanto in Oriente quanto in Occidente (Lo scontro dentro le civiltà. Democrazia, radicalismo religioso e futuro dell'India, Il Mulino). Ciò che la destra induista costruisce dagli anni '30 è un modello di nazione che mutua schemi europei. Quell'idea di identità culturale di ascendenza romantica - un popolo, una lingua, una terra - che i fascismi mobilitano in rapporto alle masse e che rappresenta, in epoca postmoderna, il prodotto di un investimento politico ampiamente sostenuto dalle comunità induiste della diaspora. Su tutte, le ricchissime comunità di migranti residenti negli Stati Uniti. Un modello di identità omogenea, incontaminata ed originaria, che valorizza un passato idilliaco, all'interno del quale vengono sfumate le differenze di classe (e ciò appare tanto più paradossale in un contesto gerarchico e di impermeabilità di casta come quello indiano) per valorizzare invece le differenze di religione, e nel quale lo scimmiottamento dei nazionalismi europei arriva al punto di usare, per inquadrare i giovani induisti, le divise della polizia coloniale inglese. Nussbaum dimostra in modo affascinante sino a che punto si spinga il processo identitario: lo stupro etnico, la violenza di cui si fanno un vanto i militanti induisti nel corso del pogrom antimusulmano del 2002, rappresentano per l'autrice la modalità per mezzo della quale la destra induista decostruisce una parte significativa della propria cultura (l'erotismo avvolgente di Krishna, il morbido corpo di Ganesh) per ritrascriverne la tradizione, dopo averla annientata nella corporeità delle donne, a partire da modelli di dominio e di uso della forza di stampo occidentale. La donna funziona come simbolo della debolezza e della vulnerabilità che si trova in ogni uomo; quella debolezza e quella vulnerabilità che devono essere estirpate perché possa essere essenzializzata l'identità politica della nazione hindutva.
L'elefante del guerriero
È del resto sintomatico, come Nussbaum ci racconta, che, almeno a partire dagli anni '80, in parallelo con il lavoro di costruzione di un'identità culturale che ricalca i modelli coloniali, la rappresentazione iconografica delle divinità indiane subisca il processo di virilizzazione che le riveste di stereotipi guerrieri: Ganesh, che non può cedere la proboscide della sua testa di elefante e l'inevitabile rinvio ad un pene moscio, perde tuttavia la pancia morbida, gli crescono i pettorali e ostenta ora un addome perfettamente scolpito. È interessante seguire Nussbaum nel suo incontro con gli intellettuali della destra induista. Verificare sino a che punto i tragici fatti del Gujarat siano stati preparati, orchestrati e difesi dalla proliferazione di un ordine del discorso che, persi per strada Tagore, Gandhi e Nehru, portatori di una visione pluralista e multiculturale dell'identità politica postcoloniale, assume invece a proprio riferimento il lavoro di nazionalizzazione delle masse dei totalitarismi degli anni '20. Un ordine del discorso piuttosto compatto e che accredita il Rashtriya Swayamsevak Sangh, come «il movimento fascista di maggior seguito nelle democrazie contemporanee». Studiosi e politici quali K. K. Shastri, Devendra Swarup, Arun Shurie, Gurcharan Das, il cui profilo l'autrice ricostruisce anche muovendo da interviste con loro, definiscono la cornice di pensiero (più o meno rispettabile, più o meno estremista: va ricordato come sia stato un induista radicale, Nathuram Godse, ad assassinare Gandhi) all'interno della quale viene posto in essere il progetto di organizzazione e difesa di quell'identità hindutva, la cui ombra monolitica viene retroproiettata sulle origini della socializzazione politica e culturale indiana e in seguito diffusa con un lento lavoro disciplinare che mobilita istituzioni educative, manuali scolastici ufficiali, gruppi informali e ricreativi, permeando di sé, in particolare negli anni in cui il «Bharatiya Janata Party» assume responsabilità di governo, buona parte della società indiana. Il conflitto non oppone civiltà disposte l'una contro l'altra rispetto ad un unico processo di democratizzazione, ma attraversa le stesse nazioni e le stesse culture democratiche. Rappresenta il rischio che la democrazia corre esattamente nella misura in cui l'apertura che essa custodisce - apertura all'altro, pluralismo delle posizioni, tolleranza religiosa, multiculturalismo - venga vissuta come una lacerazione o come una ferita. Come la situazione all'interno della quale cioè, la logica della reciprocità e del riconoscimento, cede il passo al riflesso compulsivo di difesa, alla paura, alla «chiusura» fondamentalista.
Un'aristotelica di sinistra
Lo scontro di civiltà è interno ad ogni democrazia moderna, suggerisce dunque Nussbaum. Tutte senza eccezione contengono individui e gruppi che odiano le persone diverse da loro, che incolpano dei problemi della nazione gli «stranieri», che cercano di fare dell'omogeneità, magari forzata sino all'idea di una supposta «purezza etnica», la principale risorsa della nazione. Il fascismo contemporaneo evoca costantemente spettri di questo tipo. Gandhi aveva compreso una cosa importante sulla lotta politica, ci ricorda Nussbaum, e cioè il fatto che la lotta politica è sempre una lotta all'interno del sé; una sorta di contesa tra e parti violente e dominatrici (quelle che impongono al soggetto l'ossessione alla coerenza, al controllo, l'ansia di onnipotenza) e le parti disposte a vivere nell'incompiutezza. In ogni democrazia l'immaginazione morale è sempre in pericolo. Indispensabile e delicata - fragile, come lo è la democrazia - essa può venire facilmente travolta da paura, insicurezza (vera o presunta), odio. Lo scontro di civiltà si dà dentro ciascuno di noi, perché ciascuno di noi oscilla, è questo il gioco delle dimensioni emotive ed immaginative del sé, tra aggressività autoprotettiva e capacità empatiche, quelle che ci permettono di vivere non contro, ma con, gli altri.Tornano, in questo libro di Nussbaum, tanto le correzioni che il suo capability approach ha apportato alle teorie liberali procedurali (l'idea, da lei condivisa con Amartya Sen, che centrali nella definizione delle transazioni politiche dei soggetti siano le reali circostanze materiali nelle quali si trovano asimmetricamente situati e che ciò che conta sia la possibilità per ciascuno di vivere una vita dignitosa, buona, di migliorare dunque la propria posizione iniziale), quanto l'idea «neostoica» - Nussbaum ha sempre amato definirsi un'«aristotelica di sinistra» - dell'impossibile dominio della volontà sulle mutevoli costellazioni della vita e sulla centralità delle passioni che ne deriva (a questo proposito va letto L'intelligenza delle emozioni, da poco riproposto sempre da Il Mulino).
Da Calcutta a Chicago
Le emozioni non sono un dato rimovibile. Sono infatti una componente fondamentale della soggettività e registrano in termini cognitivo-valutativi la qualità del rapporto che il vivente intrattiene con l'ambiente. Nussbaum valuta cruciali le variazioni storiche che i sistemi di norme subiscono o possono subire. E proprio su questo punto, modifica sensibilmente quello che lei identifica come il paradigma stoico classico. Vi sono emozioni socialmente pericolose. Il loro diffondersi è il sintomo della «malattia» che attraversa le democrazie contemporanee e prima ancora di esse gli individui che in esse trovano l'ambiente, sociale e politico, delle loro relazioni. Si tratta di opporre una «terapia» del desiderio alla paura, alla rabbia e alla frustrazione imposte dalla traumatica scoperta della mancata onnipotenza pretensiva del soggetto. Accettare l'altro e «preservare» la democrazia, significa dunque educare quest'ultimo alla positività dell'emozione. Educare la vita emotiva dei singoli per poterli rendere compatibili tra di loro e con il sistema generale destinato a sorreggerne il reciproco riconoscimento, sembra essere la risposta di Nussbaum alla crisi della democrazia. Un'educazione che passa per le arti liberali e la valorizzazione della poesia come collante civico. Attraverso una stilistica ed un'estetica, dunque. Che si rivolge ad un mondo ancora riformabile, migliore di com'è a uno sguardo, una filosofia politica, che sugli slums di Calcutta calino, empatici e compassionevoli, dai verdi suburbs di Chicago.
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