Otto storie esemplari di maltrattamento del nostro paese, ognuna con una sua qualità drammatica. Per l'intensità dell'abuso, per le questioni politiche che sollevano, per i conflitti che provocano.
Questo libro avrebbe potuto raccontare gli sforzi delle amministrazioni pubbliche per consolidare, conservare e riparare, laddove necessario, un patrimonio diffuso che raggiunge vette monumentali, sia nei manufatti che nel paesaggio, o che invece si disperde più minutamente in un filare di aceri che sorreggeva una vite maritata, in una pieve, negli sparuti resti di un porto fluviale di età imperiale. E in effetti la grande maggioranza delle Soprintendenze può vantare una mole di competenze, di tutela, di manutenzione e di restauri che, se messa in rapporto ai pochissimi fondi, agli stipendi ridicoli e a un carico insopportabile di burocrazia, andrebbe narrata con gli strumenti dell’epica. E analogo genere letterario verrebbe usato per tanti magistrati, assessori, funzionari e dirigenti comunali e regionali, per tanti vigili urbani, o per quella quantità indefinita di cittadini che aderiscono a comitati locali o ad associazioni nazionali in difesa del territorio. Ma nonostante tutte queste energie, con la segreta aspirazione di ricaricarle, il libro che segue non può che registrare l’incapacità dei poteri pubblici di contenere un’espansione cementizia intenta a divorare la risorsa non rinnovabile del suolo. Una risorsa che le nostre generazioni avrebbero l’obbligo di conservare per quelle future almeno nello stato in cui l’hanno ereditata e che invece stanno dissipando a ritmi travolgenti, convinte di averne la totale disponibilità, annebbiate nella soddisfazione di bisogni presenti, e ritenendo illimitate le possibilità che quella risorsa si riproduca, oltre che illimitate le proprie attitudini alla manipolazione. Accanto all’incapacità si protende la volontà. Edificare, a prescindere dagli scopi e dalla qualità, è ritenuto un moltiplicatore di profitti, un equivalente dello sviluppo, un suo sinonimo, come se la ricchezza delle nazioni si misurasse in mattoni, e come se la natura, ostile all’uomo iuxta propria principia, solo trasfigurata e imbrigliata, ricoperta di muratura, fosse resa di pieno dominio e finalmente inoffensiva.
Questo libro si nutre di un ragionevole pessimismo, indispensabile nell’agire, ma non vuole indurre allo scoramento (se dovesse accadere sarebbe l’effetto, mal tollerato, di un cattivo controllo dell’intelletto sulle passioni). Dopo tre capitoli centrati su questioni generali che mi pare offrano l’esempio della strutturale anomalia italiana – il consumo di suolo, la deregulation e l’abusivismo – vengono raccolte otto storie di maltrattamento. La fisionomia di questi racconti è assimilabile a quella di un reportage: descrizione dei luoghi, testimonianze dei protagonisti, inchieste, approfondimento, storia. Con il linguaggio, mi auguro, più consono a quello dei reportages. Uno dei criteri di scelta, sempre arbitrario (il libro, come si dice, è aperto: tali e tante sono le vicende che lo possono riempire), è la qualità direi drammatica delle storie da raccontare: per intensità dell’abuso, ma anche per il rilievo umano dei protagonisti, per la densità di questioni politiche che emanano, per i conflitti che scaturiscono, per le emozioni che alimentano.
Spero siano storie dotate di forza simbolica, ‘storie italiane’, nel senso che contengono caratteri tipici di alcune realtà colte nella loro staticità e nelle loro mutazioni.
Francesco Erbani
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