ELOGIO DELLA BICICLETTA
Bollati Boringhieri 2006*
Tutto cominciò con il cuscinetto a sfere, l’invenzione della seconda metà dell’Ottocento grazie alla quale tanto l’automobile quanto la bicicletta diventano possibili. E lo diventano in contemporanea, dunque è falso pensare alla bicicletta come a qualcosa di arretrato e di preindustriale, quasi un ritorno all’età della pietra! A un dato momento si apre un bivio di portata storica: da una parte la strada che conduce a una maggiore libertà nell’equità, dall’altra l’illusione di una maggiore velocità progressivamente paralizzante. Rispettivamente: il mondo della bicicletta e quello dell’automobile.
E’ Ivan Illich a sottolineare questo passaggio cruciale dell’umana evoluzione nel saggio Elogio della bicicletta, finalmente tradotto in Italia da Bollati Boringhieri a oltre trent’anni dalla stesura originale. Il testo, nonostante i cambiamenti socioeconomici e culturali e i decenni trascorsi, è di un’attualità straordinaria, tanto più che Illich aveva visto bene verso dove la società dell’automobile ci avrebbe portato.
La sua è un’analisi scientifica, lucida, che nulla concede al sentimentalismo, e forse sta proprio qui la sua forza. I motivi che ci devono spingere a cambiare direzione sono razionali e oggettivi e hanno una loro forza necessitante.
Illich parte dal dato che la nostra è una società energivora, che di energia si ingozza fino a soffocarne. Ora, il problema è stabilire la soglia energetica oltre la quale si arriverebbe al collasso: si tratta però di un compito politico, di quella che lui definisce una “controricerca”.
La distinzione fondamentale da cui partire è quella che passa tra trasporto e transito: il primo ha a che fare con la logica del valore di scambio e del monopolio radicale da parte del capitale industriale, mentre il secondo è prodotto dal lavoro ed è essenzialmente valore d’uso. Il trasporto, che tende a marginalizzare, fino a distruggerlo, il transito diventa progressivamente per gli individui un fattore alienante: “il passeggero che consente a vivere in un mondo monopolizzato dal trasporto diventa un angosciato e forzato consumatore di distanze delle quali non può decidere né la forma né la lunghezza”. L’alienazione arriva a tal punto che “incontrarsi” significa per lui essere collegati dai veicoli (si pensi a quanto oggi ciò sia vero anche sul fronte della comunicazione: l’invio di messaggi digitali è la nuova frontiera dell’alienazione dei corpi…).
Illich si spinge fino a dare una lettura “di classe” della deformazione spaziotemporale del movimento: dimmi a che velocità vai e ti dirò chi sei! Traduciamo nel presente e otteniamo: dimmi quant’è grosso il tuo Suv…
Vi è poi la questione dell’ostruzione del traffico da parte del trasporto (saturazione fisica e ambientale, piramide di circuiti inaccessibili, espropriazione del tempo in nome della velocità) e, connessa a ciò, la determinazione della velocità-limite entro la quale il trasporto potrebbe favorire il transito: Illich non esclude che entro quel limite vi potrebbe essere un importante fattore di ausiliarietà (l’ipotesi è quella di una velocità di punta di 40 km/orari!).
Illich conclude la sua analisi individuando tre modelli di mobilità nell’odierno scenario globale: società sottoattrezzate, che cioè non garantiscono il diritto all’automobilità dei cittadini nemmeno alla velocità della bicicletta; società sovraindustrializzate dove vige il dominio dell’industria del trasporto; ma tertium datur: “c’è posto per il mondo dell’efficacia post-industriale [...] per un mondo di maturità tecnologica”, che cioè vada verso la duplice liberazione dall’opulenza e dalla carenza, che sposti l’asse dal trasporto al transito, dal monopolio alla libertà, che operi una “ristrutturazione sociale dello spazio che faccia continuamente sentire a ognuno che il centro del mondo è proprio lì dove egli sta, cammina e vive”. Ma ciò, di nuovo, non è oggetto di deduzione, quanto piuttosto di decisione politica: la rotta da prendere non è segnata sulle carte!
In coda al volume vi è anche un piccolo saggio dell’antropologo Franco La Cecla, intitolato Per una critica delle automobili, sferzante e quantomai efficace, dove viene fatto il punto trent’anni dopo il testo di Illich.
E’ Ivan Illich a sottolineare questo passaggio cruciale dell’umana evoluzione nel saggio Elogio della bicicletta, finalmente tradotto in Italia da Bollati Boringhieri a oltre trent’anni dalla stesura originale. Il testo, nonostante i cambiamenti socioeconomici e culturali e i decenni trascorsi, è di un’attualità straordinaria, tanto più che Illich aveva visto bene verso dove la società dell’automobile ci avrebbe portato.
La sua è un’analisi scientifica, lucida, che nulla concede al sentimentalismo, e forse sta proprio qui la sua forza. I motivi che ci devono spingere a cambiare direzione sono razionali e oggettivi e hanno una loro forza necessitante.
Illich parte dal dato che la nostra è una società energivora, che di energia si ingozza fino a soffocarne. Ora, il problema è stabilire la soglia energetica oltre la quale si arriverebbe al collasso: si tratta però di un compito politico, di quella che lui definisce una “controricerca”.
La distinzione fondamentale da cui partire è quella che passa tra trasporto e transito: il primo ha a che fare con la logica del valore di scambio e del monopolio radicale da parte del capitale industriale, mentre il secondo è prodotto dal lavoro ed è essenzialmente valore d’uso. Il trasporto, che tende a marginalizzare, fino a distruggerlo, il transito diventa progressivamente per gli individui un fattore alienante: “il passeggero che consente a vivere in un mondo monopolizzato dal trasporto diventa un angosciato e forzato consumatore di distanze delle quali non può decidere né la forma né la lunghezza”. L’alienazione arriva a tal punto che “incontrarsi” significa per lui essere collegati dai veicoli (si pensi a quanto oggi ciò sia vero anche sul fronte della comunicazione: l’invio di messaggi digitali è la nuova frontiera dell’alienazione dei corpi…).
Illich si spinge fino a dare una lettura “di classe” della deformazione spaziotemporale del movimento: dimmi a che velocità vai e ti dirò chi sei! Traduciamo nel presente e otteniamo: dimmi quant’è grosso il tuo Suv…
Vi è poi la questione dell’ostruzione del traffico da parte del trasporto (saturazione fisica e ambientale, piramide di circuiti inaccessibili, espropriazione del tempo in nome della velocità) e, connessa a ciò, la determinazione della velocità-limite entro la quale il trasporto potrebbe favorire il transito: Illich non esclude che entro quel limite vi potrebbe essere un importante fattore di ausiliarietà (l’ipotesi è quella di una velocità di punta di 40 km/orari!).
Illich conclude la sua analisi individuando tre modelli di mobilità nell’odierno scenario globale: società sottoattrezzate, che cioè non garantiscono il diritto all’automobilità dei cittadini nemmeno alla velocità della bicicletta; società sovraindustrializzate dove vige il dominio dell’industria del trasporto; ma tertium datur: “c’è posto per il mondo dell’efficacia post-industriale [...] per un mondo di maturità tecnologica”, che cioè vada verso la duplice liberazione dall’opulenza e dalla carenza, che sposti l’asse dal trasporto al transito, dal monopolio alla libertà, che operi una “ristrutturazione sociale dello spazio che faccia continuamente sentire a ognuno che il centro del mondo è proprio lì dove egli sta, cammina e vive”. Ma ciò, di nuovo, non è oggetto di deduzione, quanto piuttosto di decisione politica: la rotta da prendere non è segnata sulle carte!
In coda al volume vi è anche un piccolo saggio dell’antropologo Franco La Cecla, intitolato Per una critica delle automobili, sferzante e quantomai efficace, dove viene fatto il punto trent’anni dopo il testo di Illich.
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